lunedì 28 marzo 2016

La mamma e il coccodrillo

Mentre guardo e ascolto i video che mi interessano su YouTube, ogni tanto mi capita di appuntare una frase o rapidi abbozzi di schemi su fogli A4 che estraggo dalla stampante e piego in due. Ne ho accumulati un po' accanto al computer, di questi fogli piegati che su ogni faccia possono avere appunti di argomenti assai lontani tra loro. Scorrendone uno ho letto: la mamma e il coccodrillo. Ricordavo che lo avevo preso durante una lezione di Piergiorgio Odifreddi sui paradossi, e che era una elaborazione del paradosso del mentitore. Meno precisamente ricordavo che era un modo in cui la mamma salvava il suo piccolo, forse per l'interferenza della prima immagine che m'era venuta: proveniente dal videoascolto di una lezione di Massimo Recalcati, il primo accenno d'immagine era stato quello di una mamma-coccodrillo che mangia il suo piccolo e poi piange le famose lacrime.
Recupero da Wikipedia. Sulle elaborazioni del paradosso del mentitore:
  • quella di Diogene Laerzio (II secolo d.C.): un coccodrillo gigante ghermisce un bambino che gioca sulle rive del Nilo; la madre del piccolo implora il coccodrillo di restituirle il figlio, ma il coccodrillo fa la seguente proposta: "Se indovini quello che farò, ti restituirò il bambino". La madre allora dice al coccodrillo: "Credo che mangerai il piccolo". Se la madre ha detto il vero, se ha cioè indovinato che il coccodrillo mangerà il bambino, allora in questo caso il coccodrillo ha promesso di restituire il bimbo. Ma se il coccodrillo restituisce il bimbo, significherebbe che non lo ha mangiato, e quindi la donna non avrebbe indovinato e non potrebbe salvare la vita del figlio. Risultato: in tutti i casi, se la madre dice "tu lo mangerai", la madre non potrà mai riavere il piccolo se il coccodrillo mantiene la promessa.
Ma il coccodrillo non può mangiare il piccolo, caso in cui la mamma avrebbe indovinato. Una madre che preferisce perdere il suo piccolo (il coccodrillo non può mangiarlo anche se non può restituirlo) affinché viva - un po' come il vissuto di alcune partorienti di cui parlava Recalcati: quando danno l'ultima decisiva spinta hanno la sensazione che il piccolo possa morire asfissiato se non lo espellono dal proprio corpo. 
O come la mamma vera davanti al re Salomone che vuole tagliare in due il bambino: preferisce perderlo affinché viva.


venerdì 18 marzo 2016

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Minuscoli. Tanti puntini colorati nel prato. Ho poggiato la fotocamera a terra e la ho avvicinata in modo da non far loro ombra. Poiché io, homo sapiens, enorme rispetto a loro, faccio molta ombra.

domenica 13 marzo 2016

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La biblioteca infinita e le balene bianche a pallini rossi

Il paradosso di Russell dice che "l'insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso se non appartiene a se stesso". (L'insieme dei concetti astratti appartiene a se stesso nel senso che è anch'esso un concetto astratto; l'insieme delle tazze da tè invece non appartiene a se stesso, perché è un concetto astratto di cose concrete. Ebbene, il paradosso di Russell dice che l'insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi è contraddittorio).

Russell tradusse il suo paradosso (non del tutto correttamente, dicono gli esperti di logica) in quello del barbiere: «In un villaggio vi è un solo barbiere, un uomo ben sbarbato, che rade tutti e solo gli uomini del villaggio che non si radono da soli. Il barbiere rade sé stesso?» (Anche supponendo che il barbiere si faccia radere da uno degli abitanti del villaggio che si improvvisa barbiere, allora non vale più la condizione che il barbiere rade tutti gli abitanti del villaggio - lui lo è - che non si radono da soli. Pensare il barbiere come una donna, che non ha quindi bisogno di essere rasa per non avere la barba, è una forzatura fuorviante della condizione del paradosso che sia un barbiere, uomo, ben sbarbato.)

"Il paradosso del bibliotecario è un'altra versione del paradosso di Russell dovuta al logico matematico norvegese Thoralf Skolem. Essa può essere così raccontata. 
Al responsabile di una grande biblioteca viene affidato il compito di produrre gli opportuni cataloghi. Egli compie una prima catalogazione per titoli, poi per autori, poi per argomenti, poi per numero di pagine e così via. Poiché i cataloghi si moltiplicano, il nostro bibliotecario provvede a stendere il catalogo di tutti i cataloghi. A questo punto nasce una constatazione. La maggior parte dei cataloghi non riportano sé stessi, ma ve ne sono alcuni (quali il catalogo di tutti i volumi con meno di 5000 pagine, il catalogo di tutti i cataloghi, ecc.) che riportano sé stessi. Per eccesso di zelo, lo scrupoloso bibliotecario decide, a questo punto, di costruire il catalogo di tutti i cataloghi che non includono sé stessi. Il giorno seguente, dopo una notte insonne passata nel dubbio se tale nuovo catalogo dovesse o non dovesse includere sé stesso, il nostro bibliotecario chiede di essere dispensato dall'incarico."

Poco dopo leggo:
"Un'altra versione del paradosso è quello della biblioteca infinita, nella quale sono presenti anche i volumi mai scritti su cose mai pensate, o mai esistite, e che include, ancor più paradossalmente, anche il catalogo di tutti cataloghi che non includono sé stessi." (Wikipedia, Il paradosso del bibliotecario)

"... sono presenti anche i volumi mai scritti su cose mai pensate, o mai esistite..."

La mie balene bianche a pallini rossi! Da un po' di anni, quando intendo mettere in guardia qualcuno sugli scherzi che può fare il pensiero, gli chiedo di provare a immaginare una balena bianca a pallini rossi, cosa che spesso l'altro fa senza fatica, soprattutto se ha una certa età e conosce la Pimpa (il cane bianco a pallini rossi di Altan). Poi continuo: dieci, cento, mille balene bianche a pallini rossi, e l'altro segue, di solito, più o meno immaginando ciò che le parole lo inducono a immaginare, con ciò in qualche modo rendendo esistente mentalmente ciò che non lo è. Infine gli chiedo di immaginare tutte le balene bianche a pallini rossi che non sono mai esistite.
Non sapevo di aggirarmi nei paraggi della biblioteca infinita. O forse, ignaro di dove mi trovassi, ci ero entrato.

venerdì 11 marzo 2016

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A proposito di verità

Ieri sera ascoltavo una conferenza su YouTube, in cui Piergiorgio Odifreddi parlava della verità.
Oggi per curiosità sono andato a leggere la voce "verità" di Wikipedia, e a un certo punto trovo scritto:

"L'esigenza di ricercare la verità fu un tratto caratteristico già della filosofia greca, che per prima sollevò il problema dell'essere, ossia di ciò che veramente è. Il termine greco utilizzato per indicare la verità era ἀλήθεια, alétheia, la cui etimologia, come ha messo in luce Heidegger, significa «non nascondimento», in quanto è composta da alfa privativo (α-) più λέθος, léthos, che vuol dire propriamente eliminazione dell'oscuramento, ovvero disvelamento." (Wikipedia)

Non è esattamente quello che diceva Odifreddi. Il quale diceva:  i Greci intendevano la verità in due modi diversi:

1 -  aletheia è la verità a cui posso giungere chiudendo gli occhi (come suggeriva Cartesio) e cercando nella mia mente ciò che non può mai essere del tutto dimenticato (l'indimenticabile, questo è il significato letterale di aletheia, a privativo + léthe= oblio). Indimenticabili sono le forme perfette presenti nella nostra mente (queste secondo Odifreddi intendeva Platone, e il termine che usava andrebbe tradotto con forme, che è l'esatta traduzione di idee, se si vuol capire ciò che egli diceva), rispetto alle quali forme le singole realtà del mondo sono solo approssimazioni.

2 - apokalypsis è la verità a cui posso giungere guardando il mondo e sollevando il velo che ricopre le cose (Calipso è la dea velata e l'apocalisse è l'atto dello svelamento, della scoperta, della rivelazione di come stanno davvero le cose sotto la loro apparenza)

Aletheia, diceva Odifreddi, è la verità matematica, indubitabile: che la somma dei quadrati dei cateti di un triangolo rettangolo sia uguale al quadrato costruito sull'ipotenusa può essere dimostrato in centinaia di modi, ma ne basta uno per rendere l'affermazione vera per sempre ("... non è che alla trecentesima dimostrazione ci credo di più.", diceva).

Apocalisse invece è la verità scientifica; ad essa si arriva mediante la scoperta che rivela come stanno le cose, e la scoperta può essere confermata o confutata, ma per quante conferme abbia possiamo solo esserne sufficientemente certi, non totalmente certi. Non ha lo stesso grado di certezza di quella matematica.

A questi due tipi di verità Odifreddi aggiunge la veritas, la verità dei Romani, per i quali come stanno le cose riguardo ad una qualsiasi questione doveva essere stabilito da un esperto chiamato a farlo, un giudice, che infine esprime un ver-detto.  A questa verità giuridica Odifreddi assimila la verità di fede. Il grado di certezza della verità giuridica=verità di fede è inferiore a quello degli altri due tipi di verità.

mercoledì 9 marzo 2016

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Di ciò non sa nulla

"Profondo/superficiale", "interiorizzare/esteriorizzare", "spostamento", "oggetto interno/esterno" "rivolgere contro di sé" e così via, sono modi usati per parlare di fatti psichici. Metafore spaziali.
Ma, scrive Matte Blanco, sono espressioni adatte a descrivere i fenomeni fisici, e adottarle per i fenomeni mentali comporta qualche problema. "Tutte queste comparazioni sono difatti basate sull'analogia tridimensionale ed è estremamente improbabile che i fenomeni psichici possano essere descritti in termini di solo tre dimensioni."
Freud, continua Matte Blanco, non ha detto molto su questo problema, ma risulta che ci pensò per tutta la sua vita di ricerca, fino alla fine. In "Risultati, idee, problemi", scritto nel 1938 e pubblicato nel 1941, una delle ultimissime cose che scrisse è questa:"Spazio può essere la proiezione dell'estensione dell'apparato psichico. Nessun'altra deduzione è probabile. Invece delle determinazioni kantiane a priori del nostro apparato psichico. La psiche è estesa: di ciò non sa nulla."

(I. Matte Blanco, L'inconscio come insiemi infiniti)

giovedì 3 marzo 2016

Le anime fiacche

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La sala di attesa comunicava con una ampia terrazza. Dalla terrazza, laggiù all'orizzonte i monti intorno a Roma. Oltre la grande città, proprio laggiù lontano, ma quanto bastava per un riposo d'ampiezza e una nostalgia, come fossi un montanaro strappato dai suoi luoghi.