giovedì 2 giugno 2016

Dare ai saggi dell'India quel che è dei saggi dell'India

"Nessuna verità è più certa, più assoluta, più lampante di questa: tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l'oggetto in rapporto al soggetto, la percezione per il percipiente, in una parola: rappresentazione. Questa verità è tutt'altro che nuova."
Era già implicita, scrive Schopenhauer, nelle considerazioni degli scettici, da cui procede la filosofia di Cartesio; Berkeley fu il primo a formularla espressamente, e...
E qui, cioè da subito, nella pagina iniziale de "Il mondo come volontà e rappresentazione",  Schopenhauer riconosce il suo debito al pensiero orientale, in particolare alle Upanishad, dalla cui acutezza e profondità fu affascinato e convinto: la verità che il mondo è rappresentazione del mondo era saputa "sin dall'antichità più remota dai saggi dell'India" .
Ma non c'è solo questo aspetto del rapporto tra mondo e percezione a indurre Schopenhauer ad essere riconoscente ai "saggi dell'India". In una delle prefazioni aveva scritto che il suo intento era quello di comunicare una sola, semplice idea - di cui il fatto che il mondo sia una nostra percezione è solo un aspetto seppur fondamentale - ma che poi per farlo, per esporre questa sola idea, ne era nato il libro impegnativo che il lettore aveva ora il compito di leggere. Ebbene - non ricordo che lui lo dica, lo aggiungo io - questa semplice, unica idea, che è il nucleo centrale di tutto il libro schopenhaueriano, è contenuta, chiaramente ripetuta, nelle Upanishad: comprensibile dunque il riconoscimento di Schopenhauer, ma vista la collocazione di questo riconoscimento, cioè all'apertura della sua opera, è legittima l'attesa di un confronto e una convergenza tra pensiero occidentale e pensiero orientale nell'esposizione e nelle proposte di soluzione di alcuni dei temi e problemi fondamentali del pensiero umano.

Nessun commento:

Posta un commento