lunedì 30 giugno 2014

La domanda del suicida



Alla fine delle sue considerazioni sul suicidio e su come viene considerato nelle diverse culture, Schopenhauer aggiunge:

“Il suicidio può essere considerato anche come un esperimento, come una domanda posta alla natura per costringerla a rispondere, vale a dire: quale modificazione subirà l'esistenza e la conoscenza dell'uomo mediante la morte? Ma è un domandare maldestro: infatti abolisce l'identità della coscienza, che dovrebbe ricevere la risposta.”

(Schopenhauer, Parerga)
-------------------------------------
Di suicidi ce ne sono di diversi tipi: Schopenhauer qui si riferisce essenzialmente al suicidio della persona gravemente e acutamente sofferente per motivi psichici, che decide di porre fine alla sua esistenza diventata un inferno invivibile.
In approssimazione: il suicida annulla la persona viva che è, tutta, corpo e psiche per quel che sappiamo - non solo la coscienza. Mi sorprende che Schopenhauer scriva “abolisce l’identità della coscienza” – se così ha scritto nella sua lingua, fidandosi del traduttore. Capirei subito se avesse scritto  “abolisce la coscienza”, ma forse voleva dire: proprio la sua particolare coscienza, con la sua personale identità.  

La "domanda" che il suicida fa è alla natura, come scrive Schopenhauer? 
Forse è più vicino alla realtà pensare che la “domanda” del suicida è a un tutto, che comprende anche la natura, ma che in prima direzione è rivolta al mondo che lo ha accolto e con il quale è entrato in relazione, il mondo animato altamente significativo della propria specie, cioè il mondo umano, e del mondo umano la “domanda” è rivolta alle persone che avrebbero dovuto  prendersi cura di lui, farlo sentire protetto e amato quando era inerme, e tra queste persone possiamo pensare che la domanda sia rivolta principalmente alla madre, anche se è passato tanto tempo dai suoi primi giorni mesi anni di vita. 

Madre natura? Estendendo, penso di sì, la natura come ambiente-madre. Stringendo il campo visivo, invece, la “domanda” è probabilmente rivolta alla natura della madre, di quella madre particolare, in carne ed ossa. Accade sempre che se questo primo rapporto altamente significativo è stato deludente il vissuto di delusione tenda a generalizzarsi, estendendosi anche alle altre esperienze successive che raramente riescono a contrastare o annullare gli esiti di quel primo rapporto psichicamente decisivo. Il primo amore non si scorda mai, si sa; quello che non si aggiunge ma che forse si pensa è che non si scorda mai anche se è stata una tremenda delusione.

L’identità della coscienza. Non la coscienza. 
Liberamente pensando: se il suicida riuscisse a rivolgere l’atto di morte non a tutto sé, corpo e anima, ma solo all’identità, e quindi non alla coscienza come funzione psichica – se il suicida riuscisse a rivolgere la propria aggressività all’identità della sua coscienza, alla memoria passata della sua coscienza, cioè alla sua particolare identità, alla sua storia, a ciò che è diventato, a tutto ciò che lo ha portato fino a quel punto, e non alla sua coscienza come possibilità di coscienza – se il suicida riuscisse a rivolgere il suo atto di morte soltanto contro il deposito della sua memoria ma non alla memoria come funzione - se ciò fosse possibile, sarebbe la fine dell’angoscia terribile da cui sta cercando liberazione, e lui continuerebbe a vivere, riprenderebbe a vivere percepire ricordare come se fosse appena nato. 

La “domanda” del suicida, secondo Schopenhauer, è: quale modificazione subirà la mia esistenza e la mia conoscenza mediante la morte? Così come abbiamo pensato e immaginato, dal momento in cui ho annullato con atto di aggressività mortale selettiva la mia identità, il mio passato, la mia memoria, ma non la coscienza come funzione, non la memoria come funzione, non ricordo più nulla della domanda, e non so di essere la risposta. 

Nessun commento:

Posta un commento