venerdì 13 settembre 2013

Ciò che per il fuoco è la pioggia


"Ciò che per il fuoco è la pioggia, è per l'ira la pietà. Quando uno, preso dalla collera contro un altro, medita di infliggergli un grande dolore, gli consiglio di immaginare vivamente di avergli già fatto il male, vederlo ora soffrire fisicamente o mentalmente o per la sua miseria, e dire: questa è opera mia."

Qui Schopenhauer, secondo la sua visione della vera compassione, che è partecipazione immediata alle sofferenze dell'altro e azione in suo favore senza nessun intervento di altro che sia diverso da questa istintiva reazione emotiva, avrebbe dovuto fermarsi al "vederlo ora soffrire fisicamente o mentalmente o per la sua miseria". 
L'aggiunta del pensiero: "questa è opera mia" implica l'intervento di altro rispetto alla vera compassione.

Schopenhauer pensa che dalla compassione, forza naturale della psiche umana, nascano la giustizia e l'amore. Forse, almeno in parte, quel pensare "questa è opera mia" apre verso il senso di giustizia, ma resta il fatto che implica comunque una responsabilità soggettiva, cioè in questo caso una colpa. E il senso di colpa non è radice di amore.

Ci sono persone incapaci di provare partecipazione immediata, istintiva, alle sorti di un altro essere umano - si può dire: incapaci di amare, anche se poi, per altre vie, se la cavano bene a livello di manifestazioni di amore. Altre vie come, appunto, un senso di giustizia, o un senso di colpa: l'altro deve essere amato, è giusto così, e poi, se non lo faccio, non posso riparare la mia colpa di non sentire gran che nei suoi confronti - come anche nei confronti di chiunque che non sia me stesso - anzi, ho pensato di fargli del male, gli ho fatto del male, anche se non se ne è accorto nessuno, e ora devo riparare o sono guai per me.
L'amore come riparazione all'aggressività: c'è chi pensa che questa sia l'unica fonte dell'amore.
Schopenhauer non è tra questi: quell'aggiunta avrebbe dovuto usarla con l'attenzione analitica di cui si mostra complessivamente capace, o non usarla affatto.

(A. Schopenhauer, Il fondamento della morale)



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