mercoledì 29 maggio 2013

Psicoanalisi del rimorso: l'impulsività


Il rimorso, scrive Schopenhauer, non deriva mai da un cambiamento della volontà che ha portato a compiere l'atto del quale il soggetto si pente, deriva invece da un cambiamento della conoscenza: quello stesso atto il soggetto ora lo considera diversamente rispetto a prima, quando lo ha agito.
Se consideriamo due livelli di volontà personale, uno più superficiale, legato alle circostanze presenti, per cui, seppure per un attimo, vogliamo fare quella cosa, diamo il via all'azione, e l'altro più profondo, di una volontà personale che è connessa al carattere, alla intenzionalità di base della persona, allora si capisce quello che Schopenhauer scrive: questa volontà più profonda, più intimamente legata all'assetto caratteriale, la ritiene immutabile, come secondo la sua opinione è immutabile il carattere, anche se considera possibile che nel corso della vita si verifichino trasformazioni anche radicali dei comportamenti, della condotta - ma il carattere resta quello.

La sua è un'analisi precisa dell'impulsività egodistonica, quella che porta a dispiacersi poi di ciò che si è fatto quando ci si trovava in un momento a forte connotazione emotiva in cui la lettura della realtà era distorta. Ma a Schopenhauer non sfugge che può non trattarsi di comportamenti eccezionali, bensì del manifestarsi di una volontà profonda, caratteriale, della persona; non solo: non gli sfugge nemmeno che l'impulsività momentanea, che siamo pronti a prendere in considerazione come attenuante della gravità del comportamento agito, può nascondere altro.

"Il rimorso non proviene mai dall'essersi mutata la volontà (cosa impossibile), bensì la conoscenza"

"Sempre il rimorso è rettificata conoscenza del rapporto tra l'azione e il vero e proprio intento."

"Non posso pentirmi mai di ciò che ho voluto, ma posso pentirmi di ciò che ho fatto, perché, guidato da una visione errata delle cose, ho fatto qualcosa non conforme alla mia volontà, e l'accorgermene, in forza di una più esatta conoscenza, costituisce il rimorso. Posso ad esempio aver agito con più egoismo di quanto sia conforme al mio carattere, fuorviato da rappresentazioni distorte della situazione in cui mi trovavo, o anche dall'astuzia, dalla falsità e dalla malvagità altrui, o anche dalla mia precipitazione, ovvero dalla mancanza di riflessione, determinato da motivi non già chiaramente conosciuti ma solo vagamente intuiti sotto l'influenza del presente e del coinvolgimento emotivo che ne risultava così forte che non possedevo più l'uso della mia ragione. In questo caso, il ritorno della ponderatezza non è altro che rettificata conoscenza, da cui può sorgere rimorso, che poi si manifesta nel rimediare al mal fatto, fin dove sia possibile. Va tuttavia osservato che per illudere noi stessi ci predisponiamo apparenti stati di avventatezza che propriamente sono azioni meditate in segreto."


(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione)


Nessun commento:

Posta un commento